Recensione del film di Liliana Cavani MIlarepa

 

Cavani Liliana, Milarepa
Come potrei uccidere degli esseri viventi se non potessi resuscitarli?”

Intenso. Rispettoso. Simbolico. Spirituale. Ingenuo (“nel raccontare ho voluto essere ingenua”, dice la regista nel video che accompagna il DVD). Un piccolo grande film animato da un’idea e una visione in cui oriente e occidente si annullano per dare vita alla semplice condizione umana. Geniale l’idea di fare essere ognuno di noi, con la nostre facce bianche, con i nostri occhi chiari e vacui, i protagonisti di un storia che in “teoria” dovrebbe essere totalmente tibetana, inavvicinabile, come molti pensano, alla nostra occidentale capacità di comprensione.

Se chiedi ad un Lama tibetano come mai c’è così tanta violenza e sopraffazione in paesi dove il buddismo è la religione prevalente o l’unica religione, ti risponde che gli esseri umani sono uguali ovunque e ovunque sbagliano e commettono cattiverie. E che tutti dobbiamo liberarci da ira e rabbia ovunque viviamo. Cominciando subito, in questo preciso momento perché la morte ci può cogliere ora e allora noi non avremmo avuto il tempo di intraprendere il cammino della liberazione, e rinasceremo con le stesse afflizioni che ci fanno soffrire in questa vita.
La genialità dellaCavani in questo film ( girato dopo Fancesco, I cannibali, Il portiere di notte, L’ospite, Galileo), consiste nell’aver fatto del grande yogi tibetano dell’XI secolo Milarepa, uno di noi e di Marpa un maestro o un padre un po’ troppo rigido come ce n’è tanti in una qualunque scuola o famiglia italiana.
Lo scopo della regista non è stato quello di ricostruire un Tibet e dei tibetani credibili, ma di cogliere e trasmettere con il film lo spirito e il senso universale della vicenda umana di Milarepa e Marpa. Se si pensa all’epoca in cui il film è stato girato ( 1974) questo ha del profetico. Tibetani allora in Italia ce n’erano pochissimi. Sono pochi anche oggi. Hanno cominciato a frequentare il nostro paese quando fu creato a Pomaia ( Pisa)L’Istituto Lama Tzong Khapa fondato daLama Yeshee Lama Zopanello stesso anno 1974. Allora questi due Lama erano giovanissimi ed erano stati invitati da alcuni ragazzi italiani a venire ad insegnare il buddismo qui da noi dopo che li avevano conosciuti in Nepal.

La Cavani non dà alcuna importanza agli aspetti realistici del contesto in cui vissero Milarepa e Marpa; il suo non è un film storico. E neanche un film agiografico sul buddismo tibetano.
Nel video che accompagna il DVD la regista parla di questo suo film di tanti anni fa. E’ una Cavani ancora entusiasta di quella esperienza, ha gli occhi che le brillano e sorride spesso pensando a quella bella avventura.
Veniamo a sapere che l’idea di fare un film su Milarepa le venne nel ’70 dopo che Elsa Morante le prestò il libro Milarepa, grande yogi del Tibet, scritto dal suo discepolo Rechus (XII sec.) nella traduzione inglese del 1926. La Cavani rimase fortemente impressionata dalla lettura di questo libro e decise di trarne un film.” Era un mondo che approfondiva il processo della mente, che ha una vita propria…Per dare energia alla mente c’erano altre fonti, mi colpì moltissimo”.
La prima cosa che fece fu un viaggio in Nepal e in Mustang che è il paese più vicino al Tibet e in cui il buddismo praticato è quello tibetano.
Dice la Cavani: “ Non potevo raccontarla realisticamente questa storia, dovevo essere quello che ero, uno studente, una studentessa che incontra questo libro con un professore”. Aggiunge che decise che non avrebbe mai potuto e saputo raccontare una storia totalmente tibetana, così decise di raccontare un “ Tibet immaginato, il Tibet che ho immaginato io”. Fosco Marainile consigliò allora l’Abruzzo, il Parco del Gran Sasso come il paesaggio più somigliante a quello tibetano e così è lì che è stato girato il film. Fu finanziato dalla Rai e la Cavani creò apposta una casa di produzione, la LOTAR. Al film parteciparono a titolo gratuito il grande fotografo Armando Mannuzzie il montatore Franco Arcalli.
I luoghi, i paesaggi, le montagne in cui è ambientata la vicenda sono ripresi in maniera stupenda e non sono un semplice contorno alla vicenda umana di Milarepa e Marpa. Le case, le tende, il vento, le bandierine tibetane che sventolano con i loroMantradipinti, le pietre, il verde dell’erba e i corpi delle persone fanno tutti parte del messaggio spirituale del film esplicitato verso la fine: tutto è unito a tutto. “Capii, dice Milarepa, che nessuna cosa si differenzia dall’altra, e quindi l’unità di tutte le cose”.

La trama è semplice: un ragazzo di nome Leo ha tradotto in italiano il libro sulla vita di Milarepa. Mentre è in macchina con il suo professore e sua moglie accade un incidente e il professore rimane intrappolato nell’auto. Leo e la moglie del professore rimangono incolumi. Mentre la donna sale la scarpata in cui è finita l’auto per cercare aiuto, il professore fa capire a Leo che vuole che gli racconti la storia di Milarepa. Quindi ritroviamo l’attore che interpreta Leo nelle vesti di Milarepa e il professore in quelle di Marpa, il suo Maestro, nel Tibet immaginato dalla regista.
Dopo la morte del padre gli zii hanno portata via alla sua famiglia tutti i propri beni. Su richiesta della madre Milarepa decide di recarsi da un mago per imparare la magia nera e vendicarsi degli zii. Così accade; con un sortilegio Milarepa distrugge la famiglia degli zii e gran parte degli abitanti del villaggio. Pentitosi parte alla ricerca di un Maestro per apprendere la vera pura dottrina. Così incontra Marpa che lo sottopone a prove durissime allo scopo di distruggere in lui l’Io con i suoi difetti mentali ( nel buddismo si parla di tre veleni: ignoranza, attaccamento, rabbia). Anche se le prove che deve superare Milarepa sono terribili dal punto di vista fisico, in realtà sono le stesse che debbono superare a livello mentale tutti coloro che davverohanno il coraggio e la forza di eliminare da se stessi ( come si recide un giunco si dice nel film ) il proprio Io per fare posto alla mente dell’illuminazione.
Dopo un lungo ritiro in una caverna Milarepa parte per tornare dalla madre e quindi, su indicazione del maestro, raggiungere il deserto.
Ma nella sua casa non c’è più nessuno, la madre è morta, di lei è rimasto solo lo scheletro.” Il nostro incontro fu illusione”, dice Milarepa, “praticherò la legge della realtà”.
Alla fine è il discepolo a guidare il maestro. Marpa muore e Milarepa lo aiuta ad attraversare lo stadio ntermedio (il Bardo). “ Ti aiuterò ad attraversare l’esistenza intermedia. Puoi passare, se vuoi, volare via leggero, hai davanti il tempo senza giri di sole e luna. Tutto è silenzio, oppure c’è qualcosa che ti tiene ancora legato?”.

In questo film la recitazione degli attori è affascinante, così distante dagli stereotipi attuali. Non vuole sedurre lo spettatore, non lo vuole suggestionare. Gli attori recitano come fossero in teatro, come si trattasse di una tragedia greca. Le parole sono quelle che contano, non le espressioni del viso o gli ammiccamenti emotivi. I volti sono fissi, come fossero fotogrammi immortalati in una serie limitata di espressioni. Quasi sempre neutre. La Cavani non vuole che l’aspetto esteriore degli attori prevalga sull’aspetto interiore dei due protagonisti, che si deve manifestare con le parole, poche, significative e preziose.
Questo è un film di cui non si può, non si deve, non si vuole perdere neanche una battuta. Perché si tratta di imparare qualcosa di vitale ed essenziale di noi stessi.
A questo proposito nel video che accompagna il film la Cavani dice: “ Mi sono posta l’immediatezza, come si racconta ai bambini una storia che non sanno, è una storia difficile perché è la ricerca della saggezza. E’ la ricerca del tesoro, la ricerca dell’incapacità di fare del male. Dal male si va al bene. Il film è piaciuto molto per questo. La storia di Milarepa è esemplare, serve per porti delle domande. Nel film c’è una piccola resurrezione. Milarepa nella ricerca del Maestro trova un pescatore che mangia un pesce che ha arrostito. Quando butta la lisca il pesce si riforma. Ad un certo punto la ricerca fa sì che a delle domande a cui non hai risposta ci sia una risposta visibile, pratica. Si tratta di saperla vedere, volerla vedere. Noi la chiamiamo magia, ma è una magia che fa sì che quello che sembra morto torni vivo. Il ritorno in vita. La ruota delle vite”.
E aggiunge che il compito del cinema è sì raccontare la realtà nuda e cruda ma anche l’immaginario. E questo ha fatto lei con questo film.

 

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