Anshin Thomas Claude, Una volta ero un sodato (At Hell’s gate)

“ Il mio lavoro in Vietnam era uccidere la gente. Quando, dopo due o tre mesi dal mio arrivo, per la prima volta fui ferito in combattimento, mi ero già reso direttamente responsabile della morte di diverse centinaia di persone. E oggi, giorno dopo giorno, vedo ancora la faccia di molte di loro” ( C.A.T))

Quando dopo molti anni dal suo ritorno dal Vietnam, Claude Anshin Thomas si recò ad un ritiro per reduci presso un monastero buddista in Francia, dove insegnava e insegna tuttora il monaco vietnamita Thich Nhat Hanh, si accampò fuori da monastero. Era convinto, in caso contrario, che i vietnamiti che ci vivevano lo avrebbero assalito e ucciso. “ Tracciai un perimetro intorno alla mia tenda di venti metri per trenta all’incirca e ci misi delle trappole” (pag. 53)
Dal suo ritorno in America nel 1968 fino a quel momento, e cioè fino a 1990, aveva percorso tutto il baratro di molti altri reduci dal Vietnam: alcool, droghe, violenze e perdita di tutti gli affetti. Anche se non beveva e non si drogava più da sette anni, era perseguitato da incubi spaventosi e insonnia indomabile.
Al monastero di Plum Villagei vietnamiti non lo assalirono, anzi, dice Claude nel libro, gli volevano bene. Ma ogni loro viso resuscitava un ricordo: esplosioni, sangue e morte. Un giorno un Mirage francese sorvolò il monastero. Claude si buttò a terra in preda al panico. Una monaca gli spiegò che avrebbe dovuto imparare a guardare al passato come fosse riflesso in uno specchio di acqua calma.
Durante questa prima permanenza al monastero buddista Claude imparò la meditazione seduta e camminata, imparò cioè l’attenzione al respiro e la presenza mentale, le due pratiche fondamentali del buddismo zen. Quando Thich Nhat Hanh gli propose di vestire l’abito da monaco, Claude rifiutò. Però nel 1992 entrò in contatto con la comunità zen di New York e con il suo abate Bernie Glassman.Con lui decise di prendere i voti di novizio nella tradizione buddista giapponese del Soto Zen.
E’ da questo momento che la vita di Claude Anshin Thomas cambia radicalmente: conduce ritiri di meditazione, ha vissuto per strada insieme ai senza tetto, ha intrapreso pellegrinaggi a piedi, va in zone di guerra a parlare ai soldati, insegna la meditazione ai reduci delle guerre e ai carcerati.

La sua pratica di guarigione è semplice: bisogna guardare la nostra sofferenza, parlare liberamente di come ci sentiamo, creare un linguaggio dei sentimenti “ e usarlo per cominciare a rompere il silenzio così necessario a proteggere e a perpetuare i cicli della violenza e dell’aggressione” (pag. 60).
A questo proposito Claude racconta così il suo incontro con il buddismo: “ mi ha fatto conoscere un modo di vivere pienamente cosciente, in cui si dà attenzione al più piccolo dettaglio del pensiero, del sentimento e della percezione; il termine che definisce questo modo di vivere è presenza mentale…Uno degli strumenti che mi sono stati dati per aiutarmi a stare nel momento presente è la consapevolezza del respiro. Se sono completamente consapevole del mio respiro non posso essere in nessun altro posto che nel presente” ( pag. 65).
Una parte molto interessante del libro sono i pellegrinaggi che vi sono raccontati. Il primo fu quello che Claude intraprese nel 1994 partendo da Auschwitz per arrivare, il più possibile a piedi, in Vietnam. Il pellegrinaggio fa parte del modo in cui Claude intende il suo essere monaco. “ Ho scelto di vivere come un monaco pellegrino mendicante…ho fatto voto di non accumulare beni materiali e di non avere fissa dimora. Per questo trascorro nove mesi all’anno viaggiando per il mondo, facendo un pellegrinaggio ogni anno, accettando inviti ad insegnare meditazione e vivendo per strada come un senza tetto” ( pag. 88). Una cosa che contraddistingue Claude Anshin Thomas è che quando insegna non accetta altro compenso che il cibo, l’alloggio e le spese di viaggio.
Egli fa parte dello Zen Pacemaker Order( Ordine dei costruttori della pace Zen ) ed infatti il suo primo pellegrinaggio prese il nome di “Pellegrinaggio per la pace e per la vita”. Questo viaggio durò otto mesi e i pellegrini attraversarono ventuno nazioni. Nel libro viene raccontato dettagliatamente nel capitolo V intitolato “Camminare per camminare”.
Anche un altro pellegrinaggio viene narrato nel libro con molti dettagli. Si tratta dell’American Zen Pilgrimage. Il primo Marzo del 1998 Claude Anshin Thomas, insieme ad un gruppo di pellegrini partì da Yonkers nello stato di New York e arrivò ad Albany in California il 28 Luglio dello stesso anno. In tutto camminarono centocinquanta giorni. Attraversarono a piedi l’America rurale dei piccoli centri incontrando a volte aiuto e comprensione, molte altre volte sospetto e pregiudizio. Viaggiavano senza soldi, fermandosi a fine giornata in una città o villaggio chiedendo cibo e alloggio alle persone che vi abitavano. Non sempre questo accadeva. “ In una città della Pennsylvania ci respinsero in tutte le chiese, sotto una pioggia gelida che si andava trasformando in nevischio. Finimmo per dormire all’addiaccio in una porcilaia…Fu una delle notti più belle; ero così grato per quel riparo!” (pag. 115).
Raramente l’aiuto per il cibo e l’alloggio venne dalle chiese, quattro su cinque dicevano di no. Una volta addirittura il pastore di una chiesa che aveva rifiutato di aiutare il gruppo di pellegrini, li raggiunse nel parco dove si erano fermati a riposare. Scrive Claude che mentre conversavano l’uomo gli disse che lui era nientemeno che l’anticristo. Un’altra volta invece il predicatore di una Chiesa del Pieno Vangelo li invitò a partecipare ad una funzione e dopo li presentò ai suoi fedeli con parole gentili. Inoltre in alcune chiese cristiane fu data loro la possibilità di allestire un altare e celebrare una funzione buddista.
L’ultima parte del libro è dedicata sia alla riconciliazione di Claude Anshin Thomas con suo figlio, che aveva abbandonato quando aveva tre anni a causa della sua dipendenza da alcool e droghe, che alla spiegazione di alcune tecniche di meditazione.
In conclusione vorrei aggiungere che quello che insegna questo libro è che si può cambiare, migliorarsi, evolvere. Che gli errori, pur se gravi, possono portare a qualcosa di buono. Del resto questo è il messaggio di tutti i sentieri spirituali e religiosi.

Una risposta a “”

  1. Su Bernard Glassman di cui parlo in questo articolo vi propongo questo suo scritto, si capisce che tipo speciale sia

    "Non ci sono parole"
    di Roshi Bernard Glassman

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    La morte arriva improvvisa e senza avvisare, uno shock estremo anche per coloro che hanno trascorso l'intera vita contemplando la verità dell'impermanenza. In questo testo toccante che riprendiamo dalla rivista Shambala Sun, Roshi Bernard Glassman racconta la sua pratica dopo la morte della moglie e compagna di dharma, Sensei Sandra Jishu Holmes.

    Seguo un programma giornaliero. La mattina faccio un bagno. Poi mi siedo davanti alla foto di mia moglie. A volte ascolto della musica. A volte guardo gli uccellini fuori dalla finestra. Leggo e rileggo gli insegnamenti di Ramana Maharshi, che lei ammirava. Gioco con i suoi cani e leggo i suoi diari.
    Per il resto della giornata lavoro allo sviluppo del Peacemaker Order e ne curo il sito web. Mi rendo disponibile per gli insegnanti e gli studenti anziani, di solito per telefono. A volte mi viene da ridere e dico che, rispetto a come ho lavorato negli ultimi trent'anni, adesso non faccio nulla. Ma quando il sole tramonta mi sento esausto e vado a letto presto. In realtà sto lavorando sodo. Sto portando testimonianza.
    Nel marzo del 1998 insieme a mia moglie, Sensei Jishu Angyo Holmes, abbiamo lasciato la nostra casa a Yonkers per trasferirci a Santa Fe. Ci accompagnavano quattro cani e tre membri della nostra comunità. Abbiamo attraversato il paese con due auto e due camion, facendo una sosta di tre ore in Pennsylvania per una perdita di olio di uno dei camion e un'altra di tre ore nel carcere federale di Springfield, nel Missouri, per visitare uno dei nostri preti del Peacemaker Order, Fleet Maull.
    Io e Jishu avevamo lavorato nella parte povera di Yonkers fin dal 1982, dall'inizio del panificio Greyston. Siamo poi andati a vivere a Yonkers nel 1987, concentrando per tutti quegli anni le nostre energie nel cercare di sviluppare il Greyston Mandala, un gruppo di organizzazioni che ricavavano alloggi e creavano lavoro per le famiglie senza casa e i malati di AIDS di Yonkers.
    Ma dopo aver fondato insieme nel 1996 lo Zen Peacemaker Order, iniziammo a cercare altrove un posto dove vivere. Metà del tempo eravamo in viaggio, per visitare i sangha dello Zen Peacemaker Order e i gruppi di creatori di pace in tutto il mondo e non eravamo più tanto giovani. L'idea di un rifugio, di un santuario dove entrambi avremmo potuto respirare e riposare negli intervalli tra un viaggio e l'altro e i nostri impegni, era diventata molto importante.
    Finalmente, nel dicembre del 1997, Jishu vide una casa a santa Fe; era una casa quadrata con un cortile interno, in stile coloniale, situata in alto, a strapiombo sul fiume di santa Fe. Aveva bisogno di un nuovo impianto elettrico e lo stucco andava rifatto, servivano nuove porte, finestre e bagni. Jishu se ne era innamorata. Saremmo vissuti all'ombra delle montagne Sangre de Cristo. Ci sarebbe stato spazio per i suoi cani, per nuovi alberi, per un ampio giardino. Aveva invitato anche i suoi genitori a venire a vivere con noi in modo da averli vicino. Sarebbe stato l'inizio di una nuova vita, per lei e per me.
    Martedì sera, il 3 marzo del 1998, lasciammo Yonkers. Jushin che ci aiutava nelle faccende di casa e uno studente di Jishu scattarono una foto della loro insegnante mentre sorrideva dal finestrino di uno dei due enormi camion proprio prima della partenza. Fu questa l'ultima foto di lei viva.
    Arrivammo a Sana Fe il lunedì mattina del 9 marzo e terminammo la compravendita della nuova casa. Sei giorni dopo, mentre stava disfacendo le valigie una domenica pomeriggio, Jishu si lamentò di sentire dei dolori al petto. Di corsa la portammo all'ospedale e i medici dissero che aveva avuto un infarto.
    Nei quattro giorni successivi sembrò che si stesse riprendendo, ma giovedì sera ebbe un secondo infarto e dopo una lotta di quasi ventiquattro ore, la sera tardi del 20 marzo, il giorno del solstizio di primavera, lasciò questa sfera di insegnamento. Mancavano pochi giorni al suo cinquantasettesimo compleanno.
    Dopo una settimana abbiamo fatto i funerali. La riportammo alla casa che aveva tanto amata e in cui aveva vissuto così poco, l'abbiamo lavata e vestita nella sua camera da letto, poi l'abbiamo distesa per riposare nel cortile interno coperto con una tenda. Le tenemmo compagnia tutta la notte e la mattina successiva la riportammo al luogo del funerale. Lì parlammo della nostra vita trascorsa con le. La madre parlò di come era da bambina mentre i fratelli raccontarono di come erano cresciuti insieme. Io ero l'ultimo.
    Quando toccò a me parlare, la guardai giacere nella bara, ricoperta dalla kesa che lei aveva cucito, con la mala e una collana di fiori hawaiana, e dissi: "Non ci sono parole". Fu l'unica cosa che riuscii a dire. Poi ricoprimmo di fiori tutto il suo corpo, con centinaia di fiori, e la mandammo al suo samadhi di fuoco.
    Il pomeriggio piantammo un albero di prugne nel giardino di modo che gli uccellini potessero rifugiarsi tra i suoi rami e i cani sdraiarsi alla sua ombra. Poi portammo a casa i suoi resti. Giacciono sotto la sua foto nel soggiorno dall'altra parte della stanza, di fronte all'altare dove ogni mattina faceva le pratiche zen e di buddhismo tibetano. Lei sta sempre in casa. Infatti la chiamo Casa Jishu.
    All'inizio mi trovai sotto shock. Eravamo appena arrivati qui per iniziare una nuova vita in un posto che lei amava. La nostra camera da letto dava sulle montagne e a lei piaceva alzarsi ogni mattina all'alba. Era piena di gioia e vitalità quando arrivammo in questo posto. Ma le erano state concesse solo cinque di quelle albe. Una settimana dopo la morte di Jishu mi arrivò in visione una copia del mio nuovo libro "Portare testimonianza". In esso avevo scritto sui tre principi dello Zen Peacemaker Order: la non conoscenza, il portare testimonianza alla gioia e alla sofferenza, e il guarire se stessi e gli altri. Mentre rivedevo il libro, capii che cosa mi aveva fatto lo shock. Mi trovavo in uno stato di non conoscenza.
    Ciò che era successo era inconcepibile, impensabile. La maggior parte delle persone non poteva crederci. La gente continuava a parlare del sorriso felice e spensierato di Jishu, un sorriso che nessuno di noi avrebbe mai più rivisto. Mi chiedevano: "Che cosa farai?". "Porterò testimonianza", rispondevo. Cancellai tutti gli interventi pubblici che avevo in programma per il resto dell'anno, compreso un giro promozionale per il libro. Ho scoraggiato centinaia di amici, associati e allievi che chiamavano per venirmi a trovare. Sapevo dall'inizio come sarebbe stato facile per un uomo come me, circondato da persone, programmi e progetti, con scadenze fissate con due anni di anticipo, buttarsi nel lavoro. Scelsi invece un'immersione. Scelsi di immergermi in Jishu.
    Le immersioni sono tratti caratteristici del nostro ordine. Sono ritiri pensati per levarci di colpo dal nostro modo abituale di fare le cose e dai concetti abituali e noi portiamo testimonianza. Per molti anni ho fatto immersioni al Bowery, tra i senza tetto di New York; altre immersioni le ho fatte ad Auschwitz-Birkenau, in Polonia. Ma questa è per me l'immersione più difficile di tutte.
    Ecco l'orario che seguo nella mia immersione. Mi sveglio presto e faccio un bagno. Ho imparato a fare il bagno da Jishu, lei trovava che fosse un modo meraviglioso per rilassarsi. Poi mi siedo davanti alla sua foto nel soggiorno. A volte metto della musica, specialmente la Quarta Sinfonia di Mahler che lei amava tanto. Oppure Philip Glass o Shlomo Karlbach, il rabbino cantante che è anche un mio vecchio amico, che ha cantato delle canzoni per la figlia che ha chiamato Neshama, la mia anima.
    Ultimamente ho messo in ordine i nastri e i cd; Jishu aveva iniziato a farlo a Yonkers, mettendo la musica in ordine per compositore secondo il periodo. Ho appena finito il lavoro. Gli uccellini cantano fuori dalla finestra. Lei li amava e prima di aderire alla Comunità Zen di New York aveva partecipato a una spedizione in tutto il mondo per osservare gli uccelli. Così tengo sempre a portata di mano i suoi binocoli e i suoi libri per guardare gli uccelli che lei amava tanto. Le piaceva molto pure fare i puzzle, più pezzi erano meglio era. Così c'è anche un puzzle sul tavolo rotondo vicino al cuscino dove mi siedo. I pezzi sono tutti sparsi. Quando qualcuno viene se vuole può trovare un pezzo e metterlo nel puzzle. Ci vorrà molto per finirlo, ma non c'è fretta.
    All'inizio non ero sicuro di potercela fare. In primavera erano fioriti così tanti lilla bianchi e viola che si affacciavano dalle finestre e dalle porte, il loro profumo sovrastava quello dell'incenso che accendo la mattina. I colibrì guardavano dentro attraverso i vetri, gli alberi mettevano le foglie, le ombre del crepuscolo diventavano più lunghe e si facevano dorate. Sembrava che fossi circondato dalle cose che Jishu amava. Non potevo posare l'occhio da nessuna parte senza pensare a come le sarebbe piaciuto vedere una cosa o a come avrebbe esclamato vedendone un'altra. Invece io guardavo i colibrì, sentivo l'odore dei fiori e non volevo. Volevo andarmene, lasciare la casa e Santa Fe.
    Questo posto non fa per me, dicevo alla gente, …

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