Dylan Bob, Chronicles volume 1

Picasso non passava il tempo a bighellonare su marciapiedi affollati. Picasso aveva disintegrato il mondo dell’arte e adesso i pezzi giacevano sotto gli occhi di tutti. Era un rivoluzionario. Era così che volevo essere io” (Bob Dylan)

 Quella di Dylan non è un’autobiografia artistica e personale nel senso classico della parola. Non ripercorre cioè in dettaglio le tappe che l’hanno portato dall’anonimato al successo planetario. C’è anche poca America, poco underground, poco anni ’60. Il contesto storico, anzi, sembra sparire del tutto, non fa neanche da sottofondo, salvo che tutto ha un sapore antico, soprattutto quando Dylan racconta di sé da giovane, dei suoi inizi a Minneapolis e poi a New York. Lo stile è dimesso, sottotono, modesto, non so se volutamente o no. Non fosse che si parla di Bob Dylan l’atmosfera è quella delle memorie di un impiegato di banca o di un postino. Quello cioè che questa autobiografia tenta di fare è raccontare la storia di uno normale, di uno a cui non è successo nulla di speciale, di uno che ha sempre desiderato e salvaguardato la sua vita privata, uno per cui in fondo la musica è solo il suo lavoro, ma poi dopo c’è un’altra vita che è una vita prevalentemente familiare, nel senso più tradizionale della parola. “ Il fatto di avere dei figli mi aveva cambiato la vita e mi aveva più o meno segregato da tutti e da tutto quello che succedeva. A parte la mia famiglia non c’era niente che fosse di reale interesse per me “ (pag.105).

Anche Dylan, come spesso accade ai veri artisti, non parla in questo scritto il linguaggio della sua arte, quello intendo degli specialisti, dei critici, degli esperti di Bob Dylan, dei fans o dei detrattori. Non c’è l’analisi dei suoi successi più famosi, se non in alcuni casi il racconto della fatica fatta a comporli o rinnovarli. Non è insomma un testo auto celebrativo . Si tratta di spezzoni di vita, che come dicevo non hanno neanche un andamento cronologico, e che vengono raccontati come capitoli di un romanzo. Dopo la prima parte dedicata ai difficili inizia di carriera, si passa direttamente agli anni del successo, per ritornare addirittura all’infanzia , e poi alla scoperta di Woody Guthrie.

Quello che emerge dalle pagine di questo libro è il fatto che quello che ha salvato Dylan è l’aver rifiutato di identificarsi nella persona eccezionale che milioni di persone hanno pensato o pensano ancora che egli sia. Non solo, ma è espresso a chiare lettere il suo rifiuto categorico degli appellativi che gli sono stati attribuiti dagli anni ’60 ad oggi ( “ coscienza della giovane America”,ad esempio). E non c’è verso che lui accetti di interpretare lo stereotipo della star anticonformista o di essere considerato un leader politico. Sono queste le “trappole” che Dylan è riuscito ad evitare negli anni di maggior successo.

Quattro sono sostanzialmente le parti che compongono questa autobiografia: gli inizi della carriera nei piccoli locali e nei bar, con tutte le scomodità di una vita vagabonda e senza soldi, ma accettata come cosa del tutto normale; la gestione del successo e il rifiuto di essere ridotto ad una icona; la scoperta di Woody Guthrie e la conseguente decisione di metterlo al centro della propria attività musicale.

Credo che l’aria modesta, senza pretese dello stile di questa autobiografia abbia a che vedere con il tentativo da parte di Dylan di raccontare come le cose sono davvero andate, come cioè è andata non tanto la sua vita esteriore, a cui davvero viene dedicato poco spazio, ma come è andata alla sua anima, e allora che si sia un postino o Bob Dylan la cosa non cambia affatto. Entrambi, se onesti, cercheranno di evolversi come esseri umani e questo, a dare retta a questa autobiografia, sembra abbia fatto Dylan con la sua musica.

Prendiamo la scoperta di Woody Guthrie. Tutto nasce casualmente quando si trova a Minneapolis nel 1959 dopo aver lasciato il Minnesota. Un’amica gli propone di andare a casa di suo fratello che ha l’intera collezione dei dischi di Guthrie. Si trattava di dodici 78 giri. “ Ne misi uno sul giradischi”, dice Dylan, e quando la puntina cadde sul disco rimasi sbalordito, non sapevo più se ero lucido o sotto l’effetto di qualcosa…Guthrie aveva una tale presa sulle cose. Era poetico e duro e ritmico. Aveva una tale intensità e la sua voce era come un pugnale…Era come se il giradischi in persona mi avesse sollevato dal pavimento e scagliato in giro per la stanza…Per me fu un’epifania” ( pag. 217). E ancora: “ Le canzoni di Woody stavano avendo un enorme effetto su di me, un’influenza su ogni movimento che facevo, su come mangiavo, su come mi vestivo, chi volevo e chi non volevo conoscere…I pezzi folk e blues mi avevano già fornito il concetto di cultura che mi si adattava e adesso con le canzoni di Guthrie il mio cuore e la mia mente erano stati posti in un luogo cosmologico di quella cultura che era interamente altro” (pag. 220). Sono parole davvero molto impegnative, quelle che un devoto pensa o pronuncia nei confronti di un Guru, un maestro spirituale, non semplicemente un musicista a cui ispirarsi.

Ma questo succedeva alla fine degli anni 50; dopo pochi anni Dylan avrebbe subito un’altra e definitiva metamorfosi sia musicale che umana. “ Il mondo della musica folk era stato come un paradiso che dovevo lasciare, così come Adamo aveva dovuto lasciare il giardino. Era troppo perfetto…Tutto avrebbe cominciato a bruciare, reggiseni, cartoline precetto, bandiere americane e anche i ponti alle spalle…La strada si stava facendo pericolosa e io non sapevo dove portava, ma la seguii ugualmente” (pag. 260).

A questo proposito vorrei segnalare la tenerezza e lo struggimento con cui in altra parte del libro Dylan parla di Joan Baez. Per la prima volta Bob la vede in televisione, lei già una folksinger famosa, lui un cantante sconosciuto. “ Non riuscivo a smettere di guardarla, nemmeno a battere le palpebre. Aveva qualcosa di assassino nell’aspetto, lucidi i capelli neri che le scendevano fino alle agili curve dei fianchi…Mi bastava vederla per sentirmi eccitato. Una voce che cacciava gli spiriti maligni. Era come se fosse scesa da un altro pianeta” ( pag. 226).

Ma nonostante queste parole chi crede che Dylan si sia identificato con i movimenti di protesta degli anni ’60 in America si sbaglia di grosso, almeno a dare retta alla sua autobiografia:” Gli eventi di quei tempi, tutta la babele culturale, mi stavano imprigionando l’anima, mi nauseavano… Avevo le più serie intenzioni di stare alla larga da tutto ciò… Io non avevo fatto altro che canzoni che parlavano chiaro e che esprimevano la forza di realtà nuove. Avevo poco in comune con una generazione della quale avrei dovuto essere il portavoce e non avevo niente a che fare con l’essere simbolo di una qualche forma di civiltà” (pag. 106). E come se questo non fosse sufficientemente chiaro poco dopo Dylan aggiunge: Sfondacervelli, spioni, violatori di domicilio, demagoghi stavano rovinando la vita della mia famiglia. Ogni giorno, ogni notte c’era qualche difficoltà” (pag. 107) E su questo tono il testo va avanti per parecchie pagine.

Concludo dando conto di un capitolo molto interessante rispetto all’evoluzione musicale di Dylan. Riguarda il suo rimettersi in pista all’inizio degli anni ’90, dopo un periodo in cui si sentiva poco in sintonia con il pubblico durante le esibizioni dal vivo. Anche la vera creativa si era prosciugata, si trattava di ritirarsi definitivamente o rinnovarsi. “ Mi sentivo tagliato fuori da ogni forma di ispirazione…Non riuscivo a superare gli ostacoli, tutto era a pezzi. Le mie stesse canzoni mi erano divenute estranee” (pag. 132-133).

E’ da questo senso di estraneità verso le sue vecchie canzoni che nasce il rinnovamento del repertorio di Dylan. Consisterà nellalunga ricerca di una nuova tecnica vocale e musicale; in questa ricerca vedrà al suo fianco vari “Guru”, dall’anonimo cantante jazz che una sera gli insegna ad emettere la voce in un modo nuovo, al vecchio cantante di blues che gli insegna a suonare gli accordi in un modo diverso. Col tempo Dylan trova un modo nuovo e personale di riarrangiare le vecchie canzoni. “ Avevo una fede assoluta in questo sistema e sapevo che avrebbe funzionato. Molti avrebbero detto che le canzoni erano state alterate, altri che era così che avrebbero dovuto essere eseguite fin dall’inizio” (pag. 143). E così da allora Dylan iniziò il suo Never Ending tour. Per lui si tratta di qualcosa di veramente originale, di una ricerca musicale continua, non c’entra affatto con il rifiuto di andare in pensione. Dylan compone ancora ispirandosi come sempre a quello che vede, sente, odora. Ecco come, ad esempio, nacque Dark Eyes: “ Appena uscii dall’ascensore vidi una ragazza squillo venire verso di me nel corridoio, capelli biondo pallido e cappotto di volpe, scarpe dai tacchi alti, fatti apposta per lacerare un cuore. Aveva cerchi blu intorno agli occhi, un ombretto nero, occhi neri, l’aspetto di una che è stata picchiata e ha paura che verrà picchiata di nuovo…Più tardi quella stessa notte, mi sedetti ad una finestra che dava su Central Park e scrissi Dark Eyes” ( pagina 189).

 

 

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Bob Dylan,cantautore, compositore e scrittore americano (Duluth, 24 Maggio 1941)

Bob Dylan, Chronicles volume 1, Feltrinelli, 2004

traduzione dall’inglese di Alessandro Carrera

Prima edizione originale: Simon & Schuster, 2004

 

APPRONDIMENTO IN RETE

http://it.wikipedia.org/wiki/Bob_Dylan

Sito Ufficiale: http://www.bobdylan.com/

in Lankelot: http://www.lankelot.eu/letteratura/epstein-daniel-mark-ballad-bob-dylan.html di Gianfranco Franchi

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