Nemirovsky Irène, Il vino della solitudine
“ Ogni volta nella preghiera della sera – Mio Dio, preserva dalle malattie il papà, la mamma… – sostituiva il nome di sua madre con quello di Mademoiselle Rose, con una vaga speranza omicida.” (I.N.)

I romanzi che trattano drammi familiari non sono la mia passione; i conflitti tra genitori e figli mi annoiano in letteratura; le storie che cominciano dall’infanzia del protagonista fino alla sua età adulta men che meno. Eppure mi è piaciuto Il vino della solitudine di Irène Némirovsky che tratta proprio questi tre aspetti. Per tutte le sue 245 pagine non ti dà tregua: inesorabile mancanza d’amore materno, di famiglia, di casa, di focolare insomma, così come lo intendiamo dall’età delle caverne ad oggi, ti martellano il cervello e il cuore pagina dopo pagina. Fino alla liberazione finale, che, come sempre, non può essere che la fuga: dal cerchio malefico, patologico delle dinamiche dei quattro protagonisti della cosiddetta famiglia: la madre, il padre, la loro unica figlia, l’amante della madre imposto al marito e alla figlia per tutti i quindici anni nel corso dei quali si dipana l’intreccio del romanzo.
Dalla
biografia di Irène Némirovsky veniamo a sapere che questo romanzo rispecchia persone, luoghi, situazioni che la scrittrice ha realmente vissuto. Ma in questo, come in molti altri romanzi (quelli, a mio avviso, meglio riusciti) chi scrive mitizza questi aspetti, li travisa, se ne distacca sempre, se ne crea, attraverso l’atto stesso di scrivere un’immagine diversa ( come ad esempio in Dostoevskij o Kerouac). Certo quando i luoghi si sono visti realmente, ci si è vissuto, è più facile descriverli. Ma i luoghi de Il vino della solitudine non hanno importanza in base alla loro aderenza alla realtà, sono importanti come contrappunto alla feroce, intensa vita interiore dei personaggi. Hanno lo scopo di rivelare al lettore la superiorità della vita interiore rispetto a quella esteriore.
La trama del romanzo è di per sé banale. Ma le trame sono sempre di per sé banali, nel senso che assomigliano banalmente alle nostre vite. Quello che riscatta sempre, dà forza, impeto, impulso ad una intreccio narrativo, che genera entusiasmo nel lettore è sempre la scrittura. E’ così, a mio avviso, per tutti i grandi romanzi, e anche per quelli piccoli, purché valga la pena di leggerli.
La scrittura della Némirovsky è semplicemente meravigliosa. E’ essa stessa la storia raccontata, è lei, la scrittura, la vera protagonista. Tutto è raccontato non semplicemente dal punto di vista di Hélène, la figlia di Bella e Boris Karol, ma dalla sua complessa vita interiore, quella spontanea, quella che avviene “davvero” dentro ogni essere umano. Nel caso di Hélène c’è molto odio, paura, rancore, e poco, poco amore, tanto da farle pensare che “ in ogni famiglia non c’è che lucro, menzogna e incomprensione reciproca” (pag. 110) La vita interiore è il rifugio di Hélène dalle tempeste emotive della vita. Qui c’è la sua tana, dove la sofferenza si stempera e per un po’ non si sente più. In cosa consiste la sofferenza di Hélène? Nel fatto che sua madre, l’affascinante, capricciosa e a suo modo trasgressiva Bella, non l’ama. Non la vuole. Non la cura. Non l’alleva. La ignora. Per lei è solo un impiccio e un fastidio: “ Una figlia, un rimprovero vivente, un intralcio” (pag. 40). E questo sempre, per tutta la vita di Hélène raccontata nel romanzo. E cioè fino ai suoi 21 anni. Dopo Hélène se ne va, scappa. Va a costruirsi una propria vita, senza soldi, senza appoggi, sola.
Il non amore ricevuto da piccoli ( nei primi sei anni) si dice condizioni la vita futura di ogni essere umano. Questo non amore che non è solo il contrario dell’amore, non è semplicemente assenza d’amore, è qualcosa di molto più pesante, presente, è una pietra nel cuore:“ Ma nel suo petto il cuore era pesante e colmo di un dolore complicato, strano e indecifrabile” (pag. 59). Questo dolore è il fulcro intorno a cui ruota tutto il romanzo della Némirovsky, che narra cinque vite appunto di non amore, se ci mettiamo anche quella della istitutrice di Helene, Mademoiselle Rose, lasciata morire dai coniugi Karol nell’inverno pietroburghese in piena rivoluzione bolscevica.
Cinque persone stanno per anni e anni insieme, rinchiuse per tutto o quasi il santo giorno nella stessa casa, allo stesso tavolo da pranzo, nello stesso salotto, e nessuno di loro ama l’altro, ma dell’altro ha bisogno. Chi ci soffre di più è Hélène, che l’amore materno lo anela, pensa di averne diritto, di meritarselo. E invece le viene continuamente negato, esplicitamente, spudoratamente, volgarmente: “ Certe volte questa bambina sembra un’idiota…Ma Guarda un po’ che faccia da schiaffi …questa bambina mi diventa scema” (pag. 39).
Sappiamo che Bella è affascinante, bellissima e che vive solo del desiderio degli uomini. Detesta essere sposata, sogna di vivere in un albergo di Parigi e ricevere molti uomini: “ Ah, non sono nata per fare la brava mogliettina borghese placida e soddisfatta, con un marito e una figlia!…Stringere fra le braccia un uomo di cui non sapeva da che paese provenisse né come si chiamasse, un uomo che non l’avrebbe mai più rivista, questo soltanto le dava quell’emozione forte che cercava” (pag. 17). Il marito l’adora e quando la famiglia si trasferisce dall’Ucraina a Parigi sopporta la presenza costante di Max, l’amante di Bella, più giovane di lei di 15 anni. La tresca continua anche quando tutti si trasferiscono di nuovo in Russia, a Pietroburgo. I due amanti non si nascondono, semplicemente ignorano Hélène; lei li odia sempre più.
Intanto una gran parte di denaro viene guadagnato e sperperato dal padre di Hélène, anche quando scoppia la rivoluzione del 1917. Dopo il licenziamento e la morte di Mademoiselle Rose nelle strade di Pietroburgo, Hélène rimane completamente sola. Ma è in questa solitudine che cova la sua riscossa e la sua vendetta. Solo ora troverà la forza per risorgere, per liberarsi delle catene invisibili del nefasto quadrilatero familiare. Intanto il gruppo fugge dalla Russia rivoluzionaria prima in Finlandia e poi a Parigi. Qui il padre si dà al vizio del gioco e dilapida gran parte del suo patrimonio.
Ma Hélène pensa solo alla vendetta nei confronti della madre. Farà innamorare il suo amante. Ma quando mette in atto questa decisione scopre che la vendetta non le dà nessun gusto. Non rappresenta una vera liberazione, anzi sarebbe un’altra avviluppante catena che la legherebbe ancor di più alla sua disgraziata famiglia: “ Essere un lupo feroce non è difficile e non è degno di me…In fondo quel piacere squisito era avvelenato, pieno di amarezza” (pag. 208). Dopo la morte del padre, spossato e vinto dal vizio del bere, Hélène se ne va di casa. “ Sono libera. Lavorerò. La vita non mi fa paura…Sono stati anni di apprendistato. Terribilmente duri, è vero, ma che mi hanno temprato, hanno rafforzato il mio coraggio e il mio orgoglio. E questo mi appartiene, è la mia ricchezza inalienabile. Sono sola, ma la mia solitudine è aspra e inebriante” (pag. 244).
In questo romanzo, senza perdono e senza pentimento, dove la bellezza fisica deve rimanere integra in una perpetua giovinezza, il denaro deve essere fonte inesauribile di felicità degli oggetti, e la passione amorosa è solo possesso, si salva solo Hélène perché è capace di rinunciare a tutto questo.
Purtroppo non si salverà Irène Némirovsky, che in quanto ebrea morirà nel campo di sterminio di Auschwitz.
Vorrei concludere questa recensione riflettendo sul modo interessantissimo e ricco di insegnamenti per chi scrive romanzi e racconti, di Irène Némirovsky nel trattare gli ambienti interni, le stanze, i salotti che sono zeppi di dettagli, ma mai fine a se stessi per il mero gusto descrittivo. Hanno tutti uno scopo narrativo: ampliare la gamma dei sentimenti ed emozioni dei personaggi, renderli più visibili, quasi toccabili.
E poi c’è il mondo esterno, le distese di neve della Russia e della Finlandia, le strade di Parigi e soprattutto quelle di Pietroburgo in preda alla rivoluzione. E’ incredibile l’audacia della scrittrice nel considerare un’intera rivoluzione come quella del 1917 in Russia, come “solo” lo sfondo volutamente sfuocato di una vicenda familiare che continua ad essere protagonista della storia incurante di quello che intorno accade e cambia. Madre, padre, amante e figlia continuano ad odiarsi, a litigare, a covare rivalse e vendette come se nulla fosse, come se fuori dalle loro finestre non si fucilasse gente. “ L’oro sfavillava, il vino scorreva a fiumi. Chi badava ai feriti, alle donne in lutto?…Chi porgeva l’orecchio allo scalpiccio dei soldati nella strada, all’alba, quel cupo rumore di gregge in marcia verso la morte?…(pag.89). Le giornate cruciali della Pietroburgo sono vissute tra discussioni su cosa compare e vendere e liti tra Bella e il suo amante che si stia allontanando da lei. E intanto “ gruppi di donne percorrevano le strade della città chiedendo pane. Camminavano dietro un lembo di stoffa agitato dal vento e non era un clamore a salire da quella moltitudine, ma un lamento timido e sordo: pane, pane, vogliamo pane (pagine 105-106).
Ecco, oltre ad avvincere per la forza della scrittura Il vino della solitudine insegna ad osare quando si scrive, ad andare dove ti porta la penna e l’immaginazione. Senza domandarsi troppo: è plausibile questo passaggio? Questa descrizione? Questo personaggio? Questo comportamento? Questa è la vera libertà che dà lo scrivere: inventare anche quando si racconta il reale.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Irène Némirovsky ( Kiev 1903 – Auschwitz 1942
Irène Némirovsky, Il vino della solitudine, Adelphi, 2011,245 pagine
Traduzione di Laura Frausin Guarino
Prima edizione 1935

APPROFONDIMENTI IN RETE
http://www.anobii.com/groups/0146a0ddb28373a296/
http://it.wikipedia.org/wiki/Ir%C3%A8ne_N%C3%A9mirovsky
In lankelot:http://www.lankelot.eu/search/node/nemirovsky

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