Qualche riflessione su Kaddish di Allen Ginsberg

Una cosa che ha saputo fare Allen Ginsberg è tenere insieme le sue varie anime. Quella ebraica, quella buddista, quella omosessuale, quella beat, quella ambiziosa, quella generosa. Tanto per dirne alcune. Non è una cosa facile. Molti ci perdono la testa. Si perdono. Ginsberg invece ci è riuscito. Come? Accettando le contraddizioni della vita, della sua vita. E rimanendo per tutta la sua esistenza un ricercatore spirituale, prima, molto prima che un poeta. Ma le due cose in lui, come in tutta la letteratura beat, non sono scindibili. Ed è per questo che in Italia gli scrittori beat non sono sempre compresi. Perché senza la loro ricerca spirituale non c’è la loro letteratura. Perché Snyder e Koller scrivano di coyote e falchi, ad esempio, non si capisce senza la loro storia spirituale.

Kaddish rientra in questa capacità di Ginsberg di tenere dentro di sé tutta la gamma delle sue identità. Ma nonostante questo solo tre anni dopo la morte di sua madre egli riuscì a prendere in mano il suo dolore e scriverlo.

Per buona parte della sua vita Naomi Ginsberg è vissuta in un ospedale psichiatrico, preda di una pazzia senza requie e senza rimedio. Ginsberg non si perdonava di averla far chiudere in un ospedale e quando lei morì era affranto da pesanti sensi di colpa. Ecco perché ha dovuto aspettare di far pace con se stesso per poter scrivere della morte di Naomi. Kaddish è il nome di un canto ebraico che si recita nei riti funebri. E il poema di Ginsberg è in effetti il rito funebre di un figlio per la madre. Un rito, non una preghiera, leggendolo si ha la netta sensazione che scrivere questo poema è stato officiare da parte di Ginsberg un lungo rito funebre pieno di parole. Le parole di questo rito-poema, compongono una storia, una biografia, quella di Naomi Ginsberg.
Nella prima parte Ginsberg parte da se stesso, da come si sente dopo aver scritto questo poema. “Una foglia vizza all’alba” in un cielo “ che è un vecchio posto blu”.
Ma subito dopo comincia la storia vera e propria della follia di Naomi che lui a soli 12 anni accompagna in una casa di cura. Per Naomi comincia la lunga serie di ricoveri e ritorni a casa. “ Non avere paura di me”, dice un giorno ad Allen, “solo perché torno a casa dal manicomio”. Lei pensava di avere fili nella testa e tre lunghi bastoni nella schiena, e per tutta la sua vita fu convinta che tutti fossero spie di Hitler, anche i suoi figli, anche suo marito. La parte centrale del poema è dunque tutta dedicata alla storia della pazzia di Naomi, ha il tono del dramma, il dramma di una malattia che sconvolge la vita a chi la subisce e a chi gli sta intorno. L’ultima parte invece è un vero e proprio grido di dolore. Il rimpianto dei suoi occhi, ad esempio: “coi tuoi occhi di Russia…/ coi tuoi occhi pieni di fiori”

 

 

Pubblicato da Dianella Bardelli

In questo blog sono presenti miei racconti, mie recensioni di romanzi e saggi su vari argomenti, soprattutto sulla letteratura della beat e hippy generation. Scrivo romanzi, spesso ambientati negli anni '70-'80'; e poesie; ne ho pubblicati alcuni : Vicini ma da lontano, I pesci altruisti rinascono bambini, Il Bardo psichedelico di Neal ; è un romanzo sulla vita e la morte di Neal Cassady, l’eroe di Sulla strada. Poi ho di recente pubblicato il romanzo "Verso Kathmandu alla ricerca della felicità", per l'editore Ouverture; ho pubblicato un libretto di poesie: Vado a caccia di sguardi per l'editore Raffaelli. Ho ancora inediti alcuni romanzi, uno sulla vita e la poesia di Lenore Kandel, poetessa hippy americana; un secondo invece è un giallo ambientato nella Bologna operaia e studentesca del '68; un terzo è è sull'eroina negli anni '80 a Milano e un altro ancora sul tema dell'amore non corrisposto. Adoro la letteratura della beat e hippy generation, soprattutto Keroauc, Ginsberg e Lenore Kandel. Scrivo recensioni su http://samgha.me/ e http://cronacheletterarie.com/ mio profilo in Linkedin: http://www.linkedin.com/pub/dianella-bardelli/45/71b/584

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