Bailey Derek, L’improvvisazione sua natura e pratica in musica
  L’improvvisazione viene prima di ogni altra musica dato

che la prima esibizione musicale del genere umano
non può essere stata che una libera improvvisazione” (D. B.)

 Pratico l’improvvisazione di scrittura ogni giorno. Nella definizione che ne danno nei loro saggi Kerouac e Ginsberg, l’improvvisazione di scrittura non ha lo scopo di produrre un testo bello, accettabile esteticamente, ben strutturato, e pieno di autocompiacimento per chi la scrive. Lo scopo è un altro. Quello di rappresentare in forma letteraria il qui e ora della coscienza. Kerouac non correggeva le sue produzioni. Ginsberg a volte sì, diciamo che per lui spesso l’improvvisazione era la prima stesura. Poi se voleva, correggeva. Più si ha talento e allenamento più l’improvvisazione è perfetta e non va corretta. Come disse una volta Gregory Corso, se cammino da qui a lì questo evento dopo non si può più correggere.
Nell’improvvisazione musicale questo è ancora più vero perché avviene spesso davanti ad un pubblico. In questo caso il brano improvvisato non si può correggere, se c’è errore rimane, così pure se c’è imperfezione. Come dice Andy Hamilton in Jazz as classical music, l’improvvisazione obbedisce all’estetica dell’imperfezione.
Similmente Derek Bailey parla dell’improvvisazione musicale come di qualcosa che ha a che vedere con la pratica-pratica. Non è la realizzazione di una teoria, o di un dopo che mette in pratica un prima.
Adoro questa definizione perché corrisponde al processo durante il quale la vita prende consapevolezza di se stessa. E’ il qui e ora, prima fondamentale massima della meditazione buddista che usa il respiro umano, che c’è sempre fino a che c’è vita, come strumento dell’attenzione consapevole.
Intervistato da Bailey Ronnie Scottafferma “ mi sembra che accade che uno perde la coscienza del suonare…forse si lavora inconsciamente e quando questo succede ispirazione, duende, chiamalo come vuoi…allora ci si sente veramente bene. Si prova qualcosa tipo: dovrei essere proprio quello che ora sono” (pag. 116). Durante una chiacchierata con Steve Lacy, quest’ultimo afferma che secondo lui la musica deve tendere verso quello che non conosce già, verso l’ignoto, “altrimenti è la sua morte e la nostra” (pag. 120). Ricordando gli anni ’60 a New York Lacy racconta che quando entrò in scena Ornette fu la fine della tradizione che ripeteva se stessa,la fine di tutte le teorie. Lo stesso avvenne con Don Cherry. Ma,dice Lacy, “mi ci vollero diversi anni per arrivare a capire che potevo suonare e basta…niente canzoni, niente di niente. Solo suonare e basta…L’unico criterio possibile è: si tratta di cose vive o morte?” (pag. 122-123). E aggiunge: “ Sono attratto dall’improvvisazione per via di qualcosa che, a mio avviso, ha grande importanza. Si tratta di una freschezza, di una qualità particolare, che si può ottenere solo improvvisando. …ha qualcosa a che fare con l’idea di limite. Stare sempre sul confine con l’ignoto, pronti al salto. …Se con quel salto si trova qualcosa, allora quella ha per me un valore più grande di qualsiasi cosa si possa preparare” (pag. 125).
L’improvvisazione viene osteggiata soprattutto nel campo della musica classica occidentale. L’esecuzione di brani musicali classici prevede che l’esecutore maneggi la musica sotto un rigido controllo. “ l’esecuzione diventa un atto di genuflessione…da ciò discende la considerazione che l’improvvisazione sia un’attività frivola o addirittura sacrilega” (pag. 141). Nella musica contemporanea questa rigidità nei confronti del compositore invece a volte è abbandonata a favore di parti improvvisate. Bailey fa l’esempio della modalità in cuiStockhausenfece effettuare alcune registrazioni di Ylem. Gli strumentisti venivano invitati a improvvisare in certi spazi di silenzio. Alcune volte in maniera del tutto casuale avvenivano momenti intensi e significativi.
Nel rock invece l’improvvisazione entrò a partire dal periodo psichedelico, nel 1967. Quasi tutta l’improvvisazione nel rock è di derivazione blues, a parte quella di tipo più sperimentale che si discende dalla musica elettronica.
Molto interessante in questo libro è il capitolo che riguarda il rapporto tra musica improvvisata e pubblico. Bailey afferma a questo proposito che “è stato regolarmente dimostrato come la approvazione da parte del pubblico costituisca un pericolo per l’improvvisatore. ..Quando un musicista nota una reazione positiva da parte del pubblico è tentato di riprodurre l’effetto che ha condotto a quella reazione …I suoi concerti si trasformano in numeri di rivista, in cui l’ispirazione è esclusa o trasformata in metodo commerciale” (pag. 103-104). E aggiunge: “ Innegabilmente il pubblico dell’improvvisazione,attivo o passivo, in sintonia o ostile, ha un potere che nessun altro pubblico ha” (pag. 105). A questo proposito Bailey chiede a Steve Howese quando improvvisa a casa la musica è diversa rispetto a quella improvvisata in pubblico. Steve dà una risposta ovvia ma molto interessante a proposito di quanto tutti noi esseri umani ci facciamo condizionare dal giudizio altrui. Uno dei motivi che personalmente mi spingono alle improvvisazioni di scrittura è proprio quello di cercare di liberarmi da questo condizionamento. In questo senso improvvisare può essere anche terapeutico. Dice quindi Steve: “ Credo che quello che suono a casa sia piuttosto unico, al contrario di quello che faccio in scena. Sono convinto che alla presenza del pubblico corrisponde una richiesta di far bene mentre quando si è a casa non c’è alcuna richiesta, si è talmente distesi che credo che una persona può venir fuori con la sua musica migliore” (pag 104). A questo proposito Bailey fa notare che per ovviare al condizionamento che può rappresentare il pubblico rispetto a chi suona, Charlie Parker quando improvvisava gli voltava le spalle.
Nel libro viene dedicato un certo spazio anche all’improvvisazione nella musica indiana, nel flamenco,nella musica barocca, e in quella organistica
Il libro infine fornisce un’ampia discografia di Derek Bailey.
Derek Bailey, chitarrista e musicista inglese ( Sheffield 1930 – Londra 2005)
Derek Bailey, L’improvvisazione, sua natura e pratica in musica, Arcana editrice, 1982. Il libro è tradotto e curato da Francesco Martinelli

Prima edizione 1980
Sull’improvvisazione musicale ho scritto in questo blog anche una recensione sul libro di Hamilton Andy, Lee Konitz. Conversazioni sull’arte dell’improvvisatore

 
 

2 Risposte a “”

  1. Gary Snyder

    ANARCHIA BUDDHISTA

    "Journal for the Protection of All Beings", n. 1, 1961

    (traduzione di F. Beltrametti)
     

    http://nutopia2sergiofalcone.blogspot.com/2011/02/gary-snyder-anarchia-buddhista.html

     

    Il buddhismo ritiene che l'universo e tutte le creature in esso contenute sono intrinsecamente in uno stato di totale saggezza, amore, e compassione, e che agiscono in riflesso naturale e mutua interdipendenza. Il fatto di essere buddhista – o un poeta, o qualunque altra cosa per quel che conta – è di seguire un qualche tipo di vita che porti alla realizzazione personale di questo "stato-dall'-inizio", che non si può aver da soli e per se stessi – perché non può essere pienamente realizzato finché uno non vi abbia rinunciato, e lo abbia dato via, a tutti gli altri.

     

    Nell'opinione buddhista, quel che ostacola il manifestarsi di questo stato naturale è l'ignoranza, nutrita dalla paura e dalla brama. Storicamente, i filosofi buddhisti han mancato di analizzare fino a che punto l'ignoranza e la sofferenza umana sono causate o incoraggiate da fattori sociali, e hanno generalmente ritenuto che paura e brama sono dati di fatto dalla condizione umana. Di conseguenza, l'interesse maggiore della filosofia buddhista è l'epistemologia e la psicologia senza prestare alcuna attenzione a problemi storici o sociologici. Nonostante il buddhismo mahayana abbia una grande visione di salvezza universale e d'illimitata compassione, lo sviluppo attuale del buddhismo è stato lo sviluppo di sistemi pratici di meditazione diretti al fine di liberare gli individui dai loro complessi psicologici e dalle condizionanti culturali. Il buddhismo istituzionale è stato cospicuamente pronto ad accettare o sostenere le ineguaglianze e tirannie di qualunque sistema politico sotto il quale si trovava. Questo significa morte per il buddhismo, perché è morte per la compassione. La saggezza senza compassione non sente pena.

     

    Oggi nessuno può permettersi d'essere innocente, o di indulgere nell'ignoranza sulla natura dei governi, delle politiche e degli ordini sociali contemporanei. Le politiche nazionali del mondo moderno esistono solo fomentando deliberatamente brama e paura – le radici (sia socialmente che psicologicamente, se rintracciate abbastanza indietro) della sofferenza umana. L'America moderna è diventata economicamente dipendente da un sistema fantastico che stimola l'avidità che non può essere soddisfatta, il desiderio sessuale che non può esser saziato, e l'odio che non ha altro sbocco che contro se stessi e le persone che uno dovrebbe amare. Le condizioni della guerra fredda hanno trasformato tutte le società moderne, inclusa quella sovietica, in lavatrici di cervelli senza speranza, e creato popolazioni di "preta" – spettri affamati – con appetiti giganteschi e gole non più grandi di aghi. Il suolo, le foreste e tutta la vita animale vengono distrutti per nutrire questi meccanismo cancerosi.

     

    Un essere umano è per definizione membro di una cultura. Una cultura non è necessariamente negligente e distruttiva; piena di contraddizioni, frustrazione e violenza. Questa constatazione è venuta fuori in modo modesto da alcune delle scoperte dell'antropologia e della psicologia. Uno può metterlo alla prova da sé attraverso la pratica buddhista. Abbi questa fede – o intelligenza – e sei portato a un interesse profondo per la necessità di un cambiamento sociale radicale e a un impegno personale in certe forme d'azione rivoluzionaria essenzialmente non violenta.

     

    La disaffiliazione e accettazione della povertà attraverso la pratica del buddhismo diventa una forza positiva. L'inermità tradizionale e il rifiuto di uccidere in qualsiasi modo ha implicazioni molto sovversive per le nazioni. La pratica della meditazione, per la quale uno ha bisogno "solo del suolo sotto il proprio piede" spazza via montagne di cianfrusaglie pompate nella mente dalle "comunicazioni" e dalle università-super-mercato. Il credere nell'adempimento sereno e generoso dei desideri naturali (e non nella loro repressione, una posizione ascetica indù che il Buddha respinse) distrugge i costumi arbitrari che creano frustrazione e indica la via verso un tipo di comunità che sgomenterebbe i moralisti ed eliminerebbe eserciti di uomini che combattono perché non possono essere amanti.

     

    La filosofia buddhista Avatamsaka (Kegon in giapponese) – che alcuni ritengono sia l'espressione intellettuale delle zen – vede l'universo come una vasta rete di interrelazioni in cui tutti gli oggetti e le creature sono necessarie e sante. Da un certo punto di vista, governi, guerre, e tutto quel che consideriamo malvagio sono contenuti senza compromessi in questo regno illuminato. Il falco, l'assalto improvviso e la lepre fan tutt'uno. Tuttavia, dal punto di vista umano, non possiamo vivere in quei termini a meno che tutti gli esseri vedano con lo stesso occhio intelligente. Il bodhisattva vive allo stesso standard di chi soffre, e dev'essere effettivo nell'aiutare chi soffre.

     

    La misericordia dell'occidente è stata la ribellione; la misericordia dell'oriente è stata la cognizione del sé basilare. Abbiamo bisogno d'entrambe. Entrambe son contenute, come la vedo io, nei tre aspetti tradizionali della pratica buddhista: saggezza (prajna), meditazione (dhyana) e moralità (sila). La saggezza è conoscenza della mente dell'amore e chiarezza che sta sotto le proprie ansietà e aggressività motivate dall'ego. La meditazione è andare nella psiche per vedervi tutto questo da voi stessi – vedere e rivedere, fin che diventa la mentalità in cui vivete. La moralità è esprimerlo (tutto questo) nel mondo in cui vivete, attraverso l'esempio personale e l'azione responsabile, diretta ultimamente verso la vera comunità (sangha) di "tutti gli esseri".

     

    Quest'ultimo aspetto significa, per me, sostenere ogni rivoluzione culturale o economica che si muove chiaramente verso una società libera, internazionale, senza classi; la "rivoluzione sessuale", "il vero comunismo". Le culture tradizionali sono comunque condannate, e piuttosto che aggrapparsi senza speranza ai loro aspetti buoni si dovrebbe realizzare che ogni cosa che è o era valida in ogni cultura può esser ricostruita attraverso la meditazione, scavando nell'inconscio. Significa resistere alle menzogne e alla violenza dei governi e dei loro funzionari irresponsabili. Contrattaccare con la disobbedienza civile, il pacifismo, la poesia, la povertà – e la violenza, se è questione di ripulire qualche irrecuperabile violento o di spingere la rogna al largo del molo. Difendere il diritto di fumare marijuana, di mangiare peyotl, d'essere poligamo, poliandro, oppure omosessuale – e imparare dalla gente hip fellahin dell'Asia e dell'Africa attitudini e tecniche messe al bando dall'occidente giudaico-cristiano. Rispettare l'intelligenza e la conoscenza ma non come avidità o mezzi al servizio del potere personale. Lavorare sulla propria responsabilità, senza dualismo tra fini e mezzi – mai un agente d'una ideologia – ma volenterosi d'aderire all'azione di un gruppo. "Formare la nuova società all'interno del guscio della vecchia". Roba vecchia. Così è il buddhismo. Lo vedo come una specie di disaffiliazione impegnata: "Anarchia buddhista".

    *

Lascia un commento