Continuando a leggere e rileggere Kerouac, mi accorgo sempre di più della sua grandezza letteraria che in lui è un tutt’uno con la sua immensa capacità di introspezione. Un mio amico mi ha detto una cosa che solo in questo preciso istante in cui sto scrivendo ho capito. E cioè che non conta se si fallisce e si torna ai vecchi vizi ( nel caso di Kerouac l’alcol che lo porterà alla morte). Quello che conta è averci provato. Prima di questo preciso momento gli contestavo che provarci non conta se non si diventa liberi, se non di cambia davvero. Avevo in mente ovviamente il nostro efficientismo che non dà importanza al come ma solo al cosa. Invece ho capito che provarci è più importante che riuscirci. Nella scrittura questo è un obbligo. Recentemente ho riletto Angeli della desolazione di Kerouac. Per Kerouac la desolazione è la realtà in quanto tale, quello che il buddismo chiama samsara. Per lui desolazione è l’intera sofferenza umana. Si manifesta ovunque, su una montagna dove si è da soli, o in mezzo alla folla di San Francisco. Kerouac osserva questa desolazione con un atteggiamento spontaneo, non intellettuale di compassione. Laddove c’è fatica, fatica di vivere, lui prova questa grande compassione. Questo traspare in ogni riga, parola,frase di Angeli della desolazione. Questa fatica di vivere, questo senso di desolazione ha accompagnato tutta la vita di Kerouac. Per tutta la vita a provato a vincere la sua dipendenza dall’alcol ma non c’è mai riuscito.
Provarci, riuscirci/non riuscirci. Scrivere è questo. Solo provarci. Non si sa mai se si riuscirà. Non lo si sa prima di farlo.